Colgo l’occasione di un giorno libero per una visita alla rinnovata Pinacoteca Tosio – Martinengo; nove anni di portoni sbarrati sono lunghi e grande è la mia aspettativa. La piazza dopo tanto degrado ha riacquistato il suo tranquillo decoro ottocentesco: peccato le automobili piazzate in divieto sul marciapiede, ma non sarà certo lo sguardo assorto di Moretto a esorcizzare i cafoni. Dopo tanta attesa rivedere uno dei principali poli culturali cittadini mi dà felicità, per cui sorvolo sullo spinoso totem e sul povero Tosio che scivola drammaticamente a sinistra: piccole intemperanze d’architetti.
Varcato il portone, il mio ottimismo vacilla: di fronte un tunnel da aeroporto, a sinistra lo scalone: dove vado? La biglietteria? Una cortese voce mi chiama e comprendo dove fare i biglietti: un’indicazione avrebbe evitato sia il mio spaesamento sia il mal di gola dell’addetto. Salgo lo scalone e mi ripeto: dove vado? Un’addetta, di non irreprensibile cortesia, mi indica il percorso.
Piccola galleria sobria dalle pareti grigie – colore refrigerante che rimpiangerò amaramente nelle successive sale. Mentre percorro lo spazio mi chiedo: perché delle teche con oggetti d’arte applicata e medaglie? Sono o non sono alla Pinacoteca Tosio – Martinengo? Non serve scomodare il venerando sodalizio della Crusca: in una pinacoteca, è da manuale, si espongono dipinti. Entrato nelle successive sale sono come un bambino che ha ricevuto uno splendido e grande uovo pasquale che una volta scartato si rivela di pessima cioccolata e di deludente sorpresa. La sbandierata scelta di utilizzare costose tappezzerie dagli audaci colori ha fatto sì che le sale da nobili divengano di “flanella”.
Non si comprende la drastica riduzione delle opere esposte, con lo sfratto totale di quelle considerate “non degne” con gran danno della comprensione della cultura pittorica bresciana; ma probabilmente il tutto è stato pensato a gloria dei progettisti e il rinnovato contenitore surclassa il contenuto, dato ampiamente confermato dall’illeggibilità e assurdità dell’apparato didattico e didascalico. Dopo aver percorso sale con un superbo Raffaello sperduto in un accecante verde, a guisa di una campanula tra le erbacce, una rossa: ma così rossa che arrossa i dipinti d’identico color, ritrovo il refrigerante grigio dove il delizioso capolavoro di Thorvaldens si confonde nel caos di una mal concepita parete e l’Eleonora di Canova si perde in un nebbioso infinito.
Sono stanco e non reggo la genuflessione per apprendere quanto dice la didascalia che accompagna la gigantesca scultura, presumo un Laocoonte, che per remota ragione è piazzata sul pavimento. Una cosa, comunque, oggi ho appreso: come non allestire una pinacoteca.
Giuseppe Merlo