Devo andare a Milano; devo respirare l’aria di un bel museo. Ho bisogno di una mostra dove si impari a guardare e non solo a vedere una serie di dipinti, pur belli che siano. Non sono un arredatore non mi attraggono “colorate tappezzerie”; gli acciacchi iniziano, la sonnolenza è sempre pronta, per cui schivo l'evento dove la “contaminazione” – orrida parola, ricorda sudoriferi letti ospedalieri – è regina perché dormirei.
Devo dunque rassegnarmi: devo andare a Milano, sognando una bella mostra sul Seicento bresciano, che mai si farà, una bella pinacoteca dove il maestro dialoga, emergendo, con i discepoli e i minori fanno da trono ai maggiori. Ecco lo snob, il radical chic va Milano: il provinciale che va nella capitale, sento mormorare. Non sono né l’uno né l’altro.
Sono nato nel contado e non in piccole città abitate da madame Bovary, solidamente concepito nell’humus campagnolo, non sono nato da “agiata prosapia”. Ho un nome bello, pieno, con tutte le doppie che gli competono; dovendo i contadini risparmiare nel quotidiano mai hanno lesinato sui nomi dei figli: se vi è doppia, doppia sia. Gli snob hanno nomi corti, senza doppie: Lapo, Corso, Tomaso.
Vado a Milano perché sono, o tento di esserlo, uno storico dell’arte e ho bisogno di nutrimento. Quando non vado a Milano mi perdo nella bellezza delle chiese e delle architetture di Brescia, purtroppo passato e non presente.
Giuseppe Merlo
Nella foto, Merlo con Mina Gregori, una delle più grandi storiche dell'arte in Italia