Lo storico dell'arte dice la sua sul capolavoro recentemente restaurato e sulla contaminazione che ispira gli allestimenti contemporanei.

 

La luce bagna il metallo fresco di cure. La mancanza dello scudo, anziché mutilarne la bellezza, esalta l’imperio del gesto; braccia eternamente protese a governare lo spazio. Sì, stiamo parlando di Lei: la Vittoria Alata ... e del suo nuovo allestimento. Dopo il massacro, tutto casalingo, della Pinacoteca Tosio-Martinengo, la scelta è caduta sull’architetto spagnolo Juan Navarro Boldeweg per dotare la statua di una rinnovata base in un riallestito Capitolium, e così sia.

Per glorificare il ritorno a Brescia, dopo il complesso restauro, la parola d’ordine è “contaminazione” (come se non bastasse l’attuale pandemia). L’arte antica ha necessità, nell’immaginario di politici e curatori di eventi, di essere sostenuta dal contemporaneo per apparire accattivante; sarebbe a mio dire vero il contrario, ma così stanno le cose. Se Roma (Galleria Borghese) assolda Damien Hirst per dialogare con gli antichi capolavori, con effetto tra il comico e il tragico, Brescia non si sottrae e mette in campo una sua gloria del contemporaneo per supportare il “datato” bronzo. Ma se mirando la vetusta statua comprendo il sublime, dinanzi al contemporaneo sono propenso allo sbadiglio. Allorché i “palloncini” di Jeff Koons saranno sgonfi e i cessi d’oro rubati, cosa resterà?

La Vittoria eterna e sublime. Brescia sa bene sfregiare la sua bellezza: vedi Santa Giulia, uno dei più fascinosi complessi museali italiani, e non solo, che dopo essere transitato indenne dalle oranti benedettine ai fucili austriaci non ha retto all’attacco dei politici e oggi si presenta decorticata negli intonaci e depauperata del suo ruolo di museo d’eccellenza. Percorrendo le belle strade del centro storico, ingombre di macchine posteggiate su marciapiedi, di cassonetti decorati da ogni possibile lordura, rifletto: se la cultura in città boccheggia, la civiltà è senz’altro agonizzante, con buona pace degli imperiali busti che dal Palazzo osservano sdegnosi.

Giuseppe Merlo