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La consueta rubrica della nostra collaboratrice Ariel che ogni fine settimana ci offre alcune delle sue riflessioni.

 

Giorni fa con un professionista mi sono confrontata sul significato del termine svantaggiato.

 

Sicuramente rimane predominante l’abbinamento di concetto a una situazione economica-finanziaria di sofferenza, ma si fanno strada accezioni molto più

 

stratificate, secondo i correnti modelli di vita e di società.

 

Se svantaggiato rimane l’abbinamento tradizionale alle difficoltà, rinunce e sacrifici che un soggetto compie per garantirsi – oltre alla sopravvivenza – anche uno

 

standard minimo di qualità della vita, perché non considerare le estensioni più recondite del termine e pensare ai tanti svantaggiati per condizioni fisiche e

 

psicologiche rispetto al normale ritmo della società?

 

E perché non considerare, infine, svantaggiato, colui che per scelta consapevole o  per condizione imposta o per mancanza di presupposti non gode del vantaggio

 

umano e emozionale della conoscenza, della cultura, delle arti in genere, della grande bellezza?

 

Essere o meno svantaggiati in questo senso è frutto di costruzione di una fotografia mentale che trova le proprie origini quasi nel Dna di ogni singola persona e non

 

costituisce uno stato ideale che viene pensato in un momento.

 

Lo svantaggio maggiore risiede nella mancanza di una crescita di predisposizione graduale verso la grande bellezza della conoscenza e delle arti, esclusivamente

 

perché questi elementi sono ancora ritenuti dai più non essenziali all’armonica evoluzione dell’essere umano.

 

Lo svantaggiato lo vedo idealmente come un essere umano dalla crescita difforme e non speculare con i tratti del proprio corpo divisi e separati nettamente da

 

evoluzione e involuzione.

 

Ci sarà da chiedersi: quale vantaggio e quale svantaggio determina la parte più armoniosa e quella meno gradevole alla vista e al cuore?

 

Ariel