La rubrica del fine settimana della nostra collaboratrice misteriosa Ariel
Sarà per una perversa compensazione psicologica o morale che porta i più a
guardare lontano e tendere la mano a situazioni quasi planetarie.
Il mio rispetto massimo per i profughi, i bambini del terzo mondo, le tragedie
immani dei morti di ogni etnia e terra, ma mi riesce sempre più difficile
comprendere la frettolosa superficialità che ci accomuna quando ci troviamo di
fronte ai mali oscuri, non catalogati, invisibili di persone a noi molto vicine.
Una patologia acclarata, un braccio rotto o una stampella attivano i nostri sensi, ma
un conoscente o amico spesso in silenzio, con lo sguardo basso, a disagio in qualsiasi
situazione non catturano la nostra attenzione e non muovono le nostre emozioni.
Perché tutto questo? Io mi sono data una spiegazione che non sarà certamente
l'unica o la corretta ma almeno mi ha spinta a riflettere, a confrontarmi, a mettermi
in discussione: tutti noi abbiamo paura, terrore del dolore, e percepirlo lontano ci dà
la vacua sensazione di poterlo dominare e circoscrivere. Inoltre, seppur vicini, i
disagi e i dolori derivanti da cause conclamate ci trasmettono una angoscia minore,
diversa, controllata e controllabile.
Allora molto meglio sostenere cause umanitarie di paesi e popoli lontani o essere
vicini a sofferenze e malattie visibili invece di fermare lo sguardo e il cuore e tentare
di indagare oltre.
Oggi il mio pensiero e la mia anima tentano con estrema umiltà di abbracciare e
stringere tutti i silenzi, gli sguardi bassi, i disagi di chi – lontano o vicino – non riesce
o non ha la forza di valicare la dimensione della visibilità e lancio un proposito
comune di vedere una luce diversa anche nel buio di coloro che – nonostante tutto –
continuano a esserci.
Ariel