Abbiamo incontrato Enzo Galligioni, già primario del reparto di oncologia del Santa Chiara di Trento, da lui stesso fondato e diretto per 20 anni, già presidente della sezione trentina dell’Associazione Nazionale dei Primari Ospedalieri (ANPO), attualmente presidente della Fondazione Pezcoller, nata per sostenere la ricerca sul cancro, e direttore scientifico degli ambulatori Raphael, nel Bresciano. Ne sono nati alcuni articoli, di cui quello che segue illustra l’evoluzione nell’approccio alla malattia e il ruolo dell’oncologo.

Di fronte a una diagnosi di tumore, una persona prova l’angoscia di vedersi sottratto il futuro, resta paralizzata da ansia e paura, si sente fragile e sola. Le prognosi infauste del passato generano ulteriore pessimismo e le perifrasi utilizzate per non nominare la malattia sortiscono un effetto ancora peggiore: brutto male, male incurabile, male che non perdona, che non lascia scampo, e così via. «Sono espressioni che mi irritano – sostiene con veemenza Galligioni – perché non chiamare le cose con il loro nome impedisce di considerare la realtà e i passi da gigante compiuti negli ultimi decenni dalla ricerca scientifica. Di tumore oggi si guarisce, la mortalità è diminuita in tutto il mondo ed è migliorata anche la qualità della vita lungo il decorso della malattia. La chirurgia conservativa preserva da interventi mutilanti, la radioterapia è più mirata, la chemioterapia resta una cura impegnativa, ma non devastante, anche grazie ai farmaci che ne leniscono gli effetti collaterali. Si fanno programmi a lunga distanza e le persone che superano i cinque anni dalla diagnosi sono oltre il 60%, contro il 10% di alcuni anni fa. Con certi tipi di tumore gli esiti positivi sfiorano anche l’80% e oltre».

Enzo Galligioni ha dedicato l’intera vita ai malati di cancro. «Ho iniziato negli anni ’70, quando nasceva l’oncologia medica italiana a Padova con Mario Fiorentino e a Milano con Gianni Bonadonna dell’Istituto Nazionale Tumori, maestro dell’oncologia italiana. Seguendo il mio secondo maestro, Eligio Grigoletto, mi sono trasferito a Pordenone in un ambiente stimolante e arricchente; quello è stato l’inizio di una serie di opportunità professionali incredibili passate per l’apertura del Centro Tumori di Aviano, dove sono rimasto fino al 1996, per poi approdare a Trento fino al 2016. Risale agli anni ’80 anche l’incontro fra Galligioni e don Pierino Ferrari, giunto ad Aviano nelle fasi di fondazione dei suoi centri medici, e da allora la collaborazione con Raphael – di cui dagli anni ’90 è direttore scientifico – non è mai venuta meno. Da quando non è più in corsia ha semplicemente cambiato le modalità, non certo i suoi obiettivi: oggi è presidente della Fondazione Pezcoller, con sede a Trento ma di respiro internazionale, che sostiene giovani ricercatori e promuove formazione a tutto campo sempre in prima linea, premiando ogni anno figure di eccellenza nella lotta ai tumori.

Il ruolo dell’oncologo. Nel corso della sua carriera Galligioni ha visto cambiare molte cure e modalità di intervento, l’approccio stesso alla malattia e perfino il proprio ruolo, sempre più di coordinamento tra i vari specialisti, sempre più centrale nella considerazione della persona nella sua totalità. «Un tempo – racconta sorridendo il primario – ci chiamavano solo nelle fasi terminali della malattia: il detto di allora era che si chiamava l’oncologo giusto poco prima del prete. Oggi, invece, sono gli oncologi a guidare e coordinare le scelte in ogni fase del decorso, diventando i registi della storia clinica del paziente». Visto l’obiettivo comune, i medici hanno via via imparato a superare l’individualismo e fare squadra, con un coinvolgimento di tutti in una strategia collegiale sui protocolli, prima ancora che sui singoli casi.

Approccio integrato. «Dal mio maestro ho imparato a mettere al centro il malato, considerandolo integralmente, visitandolo e ascoltandolo con attenzione, senza focalizzarmi solo sulla malattia». Galligioni e i colleghi a buon diritto possono essere definiti precursori di quello che oggi viene definito approccio integrato, una delle vie maestre per affrontare al meglio il tumore, «il quale più che malattia sarebbe corretto definire insieme di malattie, visto che si evolve coinvolgendo organi diversi con una complessità notevole dovuta a metastasi e infiltrazioni». Nessun singolo medico ha competenze sufficienti per curare adeguatamente un tumore e ogni tipo di tumore. La persona deve dunque essere seguita da un’équipe, dove tra l’altro non manca lo psicologo, c’è un piano personalizzato multidisciplinare che prevede anche il coinvolgimento dei familiari, spesso con il sostegno delle associazioni, e una comunicazione continua sulle tappe da affrontare. L’oncologo segue la persona in tutte le fasi della malattia, secondo l’approccio con cui anche gli ambulatori Raphael si sono fatti conoscere nel Bresciano (nella foto, il nuovo centro di Rivoltella): professionalità ed empatia al servizio della persona, iniziando però dalla fase dell’attenzione agli stili di vita e alla prevenzione, quella che per ovvie ragioni i medici ospedalieri non sempre possono seguire.

Giovanna Gamba