E' stata una commemorazione partecipata quella di mercoledì sera 29 gennaio quando a Gavardo si sono ricordati i 75 anni dal bombardamento. Dopo la funzione religiosa, il ritrovo sul fianco della chiesa parrocchiale proprio nel luogo dove vennero sganciate le bombe che fecero oltre 50 vittime, decine di feriti e distrussero abitazioni e negozi.

Il sindaco Davide Comaglio e il vicesindaco Ombretta Scalmana in rappresentanza dell'amministrazione comunale hanno promosso in questi giorni una serie di manifestazioni anche in collaborazione con la biblioteca e la scuola media. Alla commemorazione introdotta da Emanuele Turelli, erano presenti, tra gli altri, anche numerosi sindaci e il presidente della Comunità montana di Vallesabbia Giovan Maria Flocchini. Molto singificativa anche la presenza della banda che ha ricordato in musica i caduti. L'orazione ufficiale è stata tenuta dal giornalista Massimo Tedeschi del Corriere della Sera. Di seguito pubblichiamo il testo.

 

Settantacinque anni fa, il 29 gennaio del 1945, alle ore 13.29, Gavardo scoprì cosa significa avere la guerra in casa. Cosa significa veder piovere la morte dal cielo.

Otto cacciabombardieri americani Thunderbolt, decollati a mezzogiorno dalla base di Grosseto, sganciarono sul paese da un’altezza di circa 350 metri 16 bombe da 500 libbre (oltre tre quintali e mezzo) ciascuna.

Gli ordigni colpirono le abitazioni civili del centro storico / da un lato e dall’altro del fiume / ma il ponte, che era indicato come l’obbiettivo dell’attacco, rimase in piedi.

Il bilancio fu pesantissimo: 51 morti fra donne, uomini, bambini, anziani, giovani, sacerdoti. Decine i feriti, decine i senzatetto. Tanti gavardesi si trovarono sfollati, profughi a casa loro: furano i parenti, gli amici, il Comune, a volte semplici conoscenti a dare loro un riparo.

“Ad Auschwitz c’era la neve”, recita il testo di una canzone che ricorda la tragedia dei campi di sterminio. Anche a Gavardo c’era la neve quel giorno. E rimase nei giorni successivi: quando si scavava a mani nude per estrarre i superstiti dalle macerie, rimuovere i detriti, dare sepoltura ai morti.

Il volto del paese venne sfigurato. Le mani e gli occhi dei soccorritori furono feriti dalle schegge, dalla polvere, dalle pietre spezzate, dal dolore visto e dal dolore provato. Il cuore del paese subì una ferita che ancora sanguina.

Non c’erano social, allora. Non c’era un sistema dell’informazione paragonabile a quello attuale. All’unico giornale locale bastarono 8 righe per dare notizia della tragedia. Il morale della popolazione, si sa, non andava fiaccato. Altrettante righe vennero impiegate per annunciare che il bilancio diventava sempre più grave. Poche di più ce ne vollero per descrivere i funerali, e la compostezza dei superstiti.

Le nuove ricerche storiche e gli incontri pubblici promossi dall’Amministrazione comunale hanno consentito di scoprire nuovi aspetti su questa tragedia. Hanno ricostruito il tessuto urbano e umano che pulsava qui, dove oggi c’è una piazza e dove noi ci troviamo, e che venne spazzato via dalle bombe. Abbiamo scoperto che il paese si sentiva da tempo minacciato, in quel gennaio del 1945, dopo i mitragliamenti e i bombardamenti subiti in precedenza. Nessuno si illudeva circa la possibilità di mettere in campo una difesa efficace contro gli attacchi aerei, ma neppure la richiesta di creare un sistema di allarme tempestivo ed efficace venne accolta. La Repubblica di Salò era vicina al collasso e Gavardo rimase esposto - inerme e indifeso - come un agnello sacrificale -ai colpi dei cacciabombardieri alleati. 

Come sempre accade, dopo simili tragedie, tutti cercarono di lasciarsi alle spalle alla svelta l’esperienza vissuta. Eppure neanche allora il ricordo se ne voleva andare, forse perché – anche questo abbiamo scoperto – per due decenni in paese sono rimaste macerie, o almeno edifici sbrecciati, muri lesionati: erano loro che provvedevano a ricordare le 8 bombe e i 51 morti del 29 gennaio del 1945.

Poi, piano piano, qualcosa, è cambiato. Il paese era rinato nei muri, nelle strade, ma era dentro – nel cuore dei suoi abitanti – che era rimasto un segno. Si sentiva il bisogno, anzi l’urgenza di ricordare. Di fare un memoriale di questa pagina dolorosa della storia della nostra comunità.

A Gerusalemme, a Yad Vashem -nel Centro che ricorda la Shoah del popolo ebraico - il luogo più toccante è il Memoriale dei bambini: un ambiente buio, dove un sistema di specchi moltiplica all’infinito il bagliore di alcune candele e una voce monotona elenca i nomi, l’età e la provenienza di un milione e mezzo di bambini ebrei passati per i camini dei lager. “Ad Auschwitz c’era la neve”….

Fra poco ascolteremo i nomi delle 51 vittime del bombardamento di Gavardo. Le ascolteremo qui perché qui, in questa piazza, è il memoriale di Gavardo, e le fiamme che tengono vivo il ricordo siamo noi. Sono le nostre menti e i nostri cuori.

Ancora una volta quei 51 nomi chiederanno il nostro ricordo, la nostra pietà, la nostra preghiera. E fino a quando qualcuno pronuncerà i loro nomi, e li ricorderà, non saranno svaniti per sempre, non saranno morti invano. “I morti dipendono interamente dalla nostra fedeltà” ha scritto il rabbino Giuseppe Laras.

Fino a quando noi resteremo fedeli, la lezione del memoriale di Gavardo resterà viva.

E’ anzitutto una lezione contro la guerra.

Ogni volta che le televisioni rimandano le immagini di città, villaggi, paesi distrutti dalla guerra, chi è nato e chi vive a Gavardo non può restare indifferente. Perché da 75 anni NOI SAPPIAMO cosa significa avere la guerra in casa, cosa significa vedere arrivare la morte dal cielo. “Jamais plus la guerre, jamais plus la guerre”- mai più la guerra, mai più la guerra - urlò, anzi implorò il Papa bresciano, San Paolo VI, davanti ai potenti della terra riuniti nell’assemblea generale dell’Onu, il 4 ottobre 1965. In quell’appello c’era anche l’eco delle voci delle vittime che stasera noi ricordiamo.

 

Ma la lezione dei nostri morti è anche una lezione di bene.

Subito dopo le esplosioni e i crolli, Gavardo fu teatro di una gara di solidarietà. I morti trovarono sepoltura, i sopravvissuti conforto, gli sfollati un riparo, i profughi accoglienza. Si prodigò l’amministrazione, si prodigarono i singoli, si prodigarono le famiglie, si prodigò la comunità. Lo scrittore francese Albert Camus, al termine del suo romanzo “La peste”, ricorda “quello che s’impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”. Gavardo ha appreso, ha sperimentato, ha vissuto quella lezione, e questa sera noi siamo qui a ricordarlo.

 

Infine la lezione che il memoriale di Gavardo rende presente, anche dopo 75 anni, riguarda la conoscenza e la memoria. Un grande intellettuale ha scritto che “ciò che l’uomo può guadagnare alla scuola della guerra sono la conoscenza e la memoria”.

Conoscenza e memoria.

Conoscenza di ciò che l’uomo è capace di fare, nel bene e nel male. Memoria dell’incalcolabile numero di sofferenze e di esempi luminosi che la Storia ha messo e mette sotto i nostri occhi. In questo senso noi sappiamo bene che il nostro esercizio della memoria non si esaurisce questa sera e non si esaurirà in futuro.

I primi custodi della memoria della tragedia di Gavardo sono stati i testimoni diretti, i sopravvissuti, coloro che videro e che agirono. Ora che il loro numero si è assottigliato, e i loro ricordi spesso si sono appannati, tocca a noi raccogliere il filo della memoria. Vale, in questo sforzo, il detto rabbinico: “Non tocca a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”.

Noi non ci siamo sottratti. Noi abbiamo compiuto il pezzetto dell’opera che ci riguardava, che ci interpellava.

Ma già evochiamo i volti e i nomi dei giovani, delle nuove generazioni. Perché – presto - l’opera sempre incompiuta, sempre interminabile e sempre necessaria della memoria, toccherà a loro.

 

Massimo Tedeschi

 

Gavardo 29 gennaio 2020