Nel 2020 le imprese bresciane più internazionalizzate hanno retto meglio l’impatto della pandemia. In particolare, il fatturato realizzato all’estero dalle imprese bresciane,pari in media al 47% del totale, non si è radicalmente modificato rispetto al pre Covid-19, mentre per il 2021 ne è previsto addirittura un aumento.A evidenziarlo è l’Indagine Internazionalizzazione 2021, curata dal Centro Studi di Confindustria Brescia, che ha rielaborato in chiave locale i dati dell’Indagine regionale condotta da Confindustria Lombardia, con il coinvolgimento delle nove territoriali associate.

Il campione bresciano è composto da 250 aziende, di cui 215 del settore manifatturiero, per un fatturato complessivo di circa 7,1 miliardi di euro (bilanci 2019) e quasi 17.300 dipendenti occupati.Nel dettaglio, l’impatto della pandemia sui ricavi in termini assoluti risulta più marcato rispetto a quello sui ricavi realizzati oltre confine.Per il fatturato estero, nel 2020 il 55% delle imprese rileva una diminuzione rispetto al 2019, il 25% lo dichiara in aumento, il 20% stabile. Per il fatturato totale, il 70% delle aziende dichiara una diminuzione, il 20% un aumento e il 10% stabilità. Si dimostra quindi una maggiore “tenuta” del fatturato estero rispetto a quello totale, che ha consentito alle imprese più internazionalizzate di soffrire meno la crisi.“I dati in chiave bresciana dell’Indagine Internazionalizzazione dimostrano, una volta di più, quanto l’apertura ai mercati esteri, in particolare attraverso l’export, rappresenti unelemento di successo

 

per le nostre imprese–commenta Mario Gnutti, Vicepresidente di Confindustria Brescia con delega all’Internazionalizzazione –.Nello scorso anno, il fatturato realizzato all’estero dalle aziende bresciane è stato pari in media al 47% del totale, e non si è radicalmente modificato rispetto al pre Covid-19, mentre per il 2021 ne è anzi previsto un aumento. Una serie di elementi che ci spinge, anche come Confindustria Brescia, a continuare il nostro lavoro di apertura oltre confine: in questo senso, diventerà sempre più rilevante anche avere una presenza concreta presso i mercati più importanti attraverso un approccio “local to local”e di prossimità al cliente.”L’impatto della pandemia è stato complessivamente pesante per gli scambi commerciali della provincia di Brescia: una caduta delle esportazioni del 9,3% nel 2020 rispetto al 2019, che si è tradotta in una perdita di oltre 1,5 miliardi in un anno. Il bilancio è risultato, tuttavia, meno negativo di quello regionale (-10,6%) e nazionale (-9,7%) e la provincia si è dimostrata reattiva alla ripartenza del commercio mondiale di fine 2020, con una crescita delle vendite all’estero del5,3% nel quarto trimestre e un ulteriore rimbalzo tra gennaio e marzo di quest’anno (+12,4%).

In generale, le imprese bresciane risultano fortemente internazionalizzate, con l’80% che possiede almeno una modalità di rapporto con l’estero (esportazioni, importazioni, franchising, uffici di rappresentanza, produzione, joint ventures, investitori stranieri). La modalità più diffusa si confermano le esportazioni tramite vendita diretta al cliente finale (67% dei rispondenti). La presenza diretta all’estero interessa un numero più contenuto di aziende: il 9% per filiali commerciali o negozi direttamente gestiti; l’8% per produzione con proprie sedi e stabilimenti. Tra i canali di esportazione, risulta ancora poco utilizzato l’e-commerce. Il 65% delle imprese non è particolarmente attrezzato e non è interessato a farlo; il 16%, invece, è attivo con una piattaforma propria; il 15% si sta attrezzando. Lo stop alle fiere internazionali in presenza, causato dalla pandemia, sembra aver messo in luce l’urgenza di rafforzare i canali di vendita digitale, sia promuovendo una maggiore presenza sulle piattaforme esistenti, sia istituendone di nuove anche di nicchia.

Il ritardo accumulato andrebbe colmato favorendo lo sviluppo di competenze in ambito digitale.Mediamente un’impresa serve 23 Paesi diversi (il numero aumenta al crescere della dimensione), ma la quota difatturato realizzata nel solo principale Paese straniero nel 2020 risulta molto rilevante (22%), quasi a testimoniare che la pandemia abbia rafforzato la tendenza a concentrare gli sforzi di mantenimento della quota di mercato nel principale Paese. Dal punto di vista delle vendite, al primo posto risulta la Germania, seguita da Francia, Stati Uniti, Spagna, Regno Unito. Si conferma quindi, ancor più nel 2020 per le difficoltà legate alla pandemia, la scelta di privilegiare i mercati europei più vicini, che consentono di sfruttare al massimo le energie accorciando la filiera. Per le sedi produttive, l’orizzonte si amplia, con una preferenza, tra le medie e grandi imprese, per i mercati economicamente più avanzati (Stati Uniti) e, tra le piccole, per quelli meno sviluppati (Polonia). Per le sedi commerciali, al primo posto è ancora la Germania, seguita da Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Spagna, con una preferenza del partner tedesco diffusa tra tutte le classi dimensionali e una maggiore apertura verso mercati geograficamente più lontani (Stati Uniti) da parte delle medie e grandi imprese.

Tra i servizi di supporto all’internazionalizzazione, quelli ritenuti di maggiore interesse sono la ricerca clienti/intermediari/commerciali esteri (per l’82% dei rispondenti) e l’organizzazione di incontri b2b anche in modalità virtuale (38%). Nonostante più della metà delle aziende intervistate abbia subìto nel 2020 una caduta del fatturato, risulta un certo ottimismo sulla tenuta competitiva: il 59% degli intervistati dichiara di non aver perso quote di mercato rispetto ai competitor all’estero e di essersi mantenuto in linea con il potenziale; il 13% di essere andato meglio del potenziale. Tra i fattori di maggiore criticità, le imprese segnalano: difficoltà di spostamento del personale/mobilità internazionale, problemi di domanda nei Paesi di destinazione/calo ordinativi e rialzo dei prezzi delle materie prime. In tema di approvvigionamento, il 67% delle aziende dichiara di non aver modificato, nel 2020, la composizione e il numero dei propri fornitori esteri e di non volerlo fare quest’anno, mentre il 27% non li ha modificati, ma sta considerando di farlo. Tra gli effetti del Covid-19, sembra emergere quindi, in parte, anche un ripensamento delle filiere di fornitura.