La consueta rubrica di riflessione del fine settimana della nostra collaboratrice gardesana Ariel.
Attingo ancora a piene mani dagli stimoli dialettici che mi giungono durante rare ma piacevoli occasioni di convivialità e, sempre, mi trovo sorpresa nell’apprendere sfumature dialettiche nuove dai pochi amici che frequento poco ma con gioia.
Ci si trova a affrontare la differenza tra solitudine e solitarietà. L’amico che mi parla sottolinea la differenza tra i due termini, di cui – il secondo – poco usato e ancor meno conosciuto.
La solitudine è uno stato in cui ci si trova – nostro malgrado - a vivere; è quindi una dimensione non scelta dall’individuo ma determinata da contesti e fatti esterni. Per questo viene definita un male sociale, il cui peso sfocia, spesso, in importanti patologie o cronicità psichiche e psicologiche.
La solitarietà è – invece – uno stato , in cui la persona raggiunge la consapevolezza e l’autosufficienza di voler stare da sola e godere nello stare sola, convinta che solo così si può imparare a stare meglio con gli altri. Da un lato, quindi, l’involontaria imposizione; dall’altro, la consapevole disposizione.
In un mondo sempre più interconnesso e veloce la solitudine ha assunto contorni tetri e preoccupanti. Non andando molto in là con i ragionamenti, basti pensare all’immediato desiderio di scrivere un messaggio sul cellulare rispetto alla telefonata o al colloquio de visu.
Parimenti, sempre l’attuale corsa del mondo, spinge sempre più persone, sentimentalmente sole o amate, a essere solitari, incontrandosi con la propria essenza e le proprie passioni, senza disdegnare la compagnia.
Da qui anche l’approccio con le nuove conoscenze, compiute con arguta scelta e non nel timore della solitudine. Va da sé che la declinazione dialettica apre un ampio ventaglio di opzioni, osservazioni, riflessioni, ma il dato importante è insito nella scoperta che ogni volta faccio di un pezzo di me, altalena di gioia solitaria e gioia condivisa con la speranza di non essere sola.
Ariel